Necrophobic – “The Nocturnal Silence” (1993)

Artist: Necrophobic
Title: The Nocturnal Silence
Label: Black Mark Production
Year: 1993
Genre: Melodic Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Awakening…”
2. “Before The Dawn”
3. “Unholy Prophecies”
4. “The Nocturnal Silence”
5. “Inborn Evil”
6. “The Ancients Gate”
7. “Sacrificial Rites”
8. “Father Of Creation”
9. “Where Sinners Burn”

Quanto peso può avere la mera estetica nel farci ascrivere dagli altri ad un raggruppamento di elementi a noi non certo estranei, ma tuttavia nemmeno così tanto affini come una prima occhiata potrebbe suggerire? Nell’indaffarato sottomondo metallico, diviso al contempo tra la pretesa di vedere oltre le ingannevoli apparenze e l’urgenza di catalogare ogni proposta sotto eponimi anche piuttosto ridicoli, il dibattito tra forma e sostanza ha prodotto casi di incomprensioni ai limiti del clinico soprattutto in quella Svezia che, ad oggi, annovera entro i suoi principali export sui palchi dell’intero globo terracqueo il Melodic Death a tema vichingo degli Amon Amarth e l’Hard & Heavy incipriato di occultismo formato famiglia dei Ghost: tutti espedienti che hanno confuso non poco le platee borchiate generando non di rado antipatie anche piuttosto forti verso tali monicker.
E dire che per la Konungariket questa non è certo una novità – anzi, per certi versi, persino la prassi sin da quando nel bollente underground del luogo si aggiravano creature di confine come i mai troppo lodati Grotesque, i quali meglio di ogni altro gruppo avevano gettato nel cestino qualsiasi preconcetto di sorta suonando Death Metal a modo loro ed infarcendolo di atmosfere, virate e iconografie esplicitamente votate al Maligno. In pressoché perfetta coincidenza temporale con il progetto messo su da degli ancora misconosciuti Goatspell e Necrolord, capita allora che pure nella radicale Stoccolma due baldi diciannovenni diano vita ad una band allo scopo dichiarato di intingere nella pece il suono svedese, traghettandolo verso inedite sfumature di nero estratte dalla notte senza fine che silente sta calando sopra l’ignara penisola scandinava.

Il logo della band

Mentre la rivoluzione in atto in Norvegia trae origine non soltanto da basi sonore ma anche da sempre più severi dettami estetici, tra copertine in bruciante contrasto b/w ed eccessivi outfit dai richiami medievali, fino a metà anni ’90 tra i cugini di levante resiste di contro un senso di leggerezza per cui, a stringere alleanza col Demonio, sono solamente coloro che si sentono davvero pronti a tale passo senza ritorno. Dei celebri pionieri avventuratisi alla ricerca del passaggio a nord-ovest che connetta Death e Black unendoli a sconsacrate nozze, i Necrophobic sono del resto e a prima vista quelli meno interessati a prendere sul serio il lato contenutistico del proprio operato; specie se confrontati alle visioni lovecraftiane (o per meglio dire morbidangeliane) degli Unanimated quando non al satanismo fatto e finito abbracciato fino alle conseguenze ultime dai Dissection. Quello che però, a volerla dire proprio tutta, manca ad entrambe le formazioni è un chitarrista di nome David Parland: figura che nonostante un percorso musicale e di vita in grado di incidere il suo marchio tra i numi tutelari di ogni blackster degno di rispetto continua ad essere lasciata troppo di frequente in disparte qualora si snocciolino i volti simbolo dell’epopea nera; conseguenza, almeno così si augura chi scrive, di una condotta oltremodo schiva addirittura per gli standard dell’ambiente circostante, la quale gli ha evitato i sensazionalismi di un Jon Nödtveidt ma che -anzi- ha spinto l’altrove noto come Blackmoon ad abbandonare progetti da lui stesso fondati ed aventi in mano tutte le carte in regola per la notorietà (Necrophobic e Dark Funeral, per i pochi folli non edotti dei fatti), fino all’estremo gesto che esattamente una decade fa, e perciò a due trascorse dal suo personale non plus ultra artistico, lo accomunerà alla parimenti geniale ma in confronto assai più glorificata mente dietro “The Somberlain” e “Storm Of The Light’s Bane”.

La band

Mille volte più cupo, tenebroso e genuinamente inquietante rispetto ad ogni altro full-length fosse in precedenza venuto fuori dalle ormai trafficate sale dei Sunlight Studios, “The Nocturnal Silence” non segna un distacco netto tra prima e dopo come poteva aver fatto un In The Forest Of The Dreaming Dead” grazie alle sue intuizioni a volte quasi Folk, né rimane al palo del metallo mortale svedese limitandosi a qualche pentacolo di circostanza (che il gruppo ribattezzerà necrogram in tempi recenti) schiaffato sulla cover. Il terreno di gioco del quartetto sono pur sempre i riff spaccamontagne comunemente associati al riverito produttore Thomas Skogsberg, sebbene rimasticati dalle fauci luciferine a sei denti di Parland e puntellati dalla ritmica mai strabordante dell’altro membro fondatore Joakim Sterner dietro le pelli: non si cerca insomma di reinventare la ruota, casomai la si rivernicia di nero affinché non stoni col resto del carro funebre. Ancora meglio del sinistro carillon che da il La all’intero album e nello specifico ad una comunque già caratteristica “Awakening…”, ad illustrare con dovizia di particolari il modus operandi dei Necrophobic al debutto sono le “Before The Dawn” ed “Unholy Prophecies” seguenti a ruota: impressionanti nella loro fluidità compositiva alternante sporadici assalti frontali ad un soverchiante groove dalla presa sinceramente diabolica.
Su di un tappeto che puzza dunque di pura morte svedese opportunamente rallentata per garantirne il fetido respiro, “The Nocturnal Silence” non tarda ad esaltarci con l’ottima prova di Anders Strokirk, cantante dagli indubbi limiti espressivi la cui voce tuttavia, mai troppo esposta e mantenuta su di un tono a metà strada tra scream e growl, funziona benissimo come invocatrice di demoni dalla testa caprina; specie se ad affiancarla vi sono le mefistofeliche scale tra questo mondo e quello di sotto su cui strisciano le sei corde di Parland, prima insidiose nei loro lead ficcanti sulle sezioni mediane, e poi sublimi quando l’axe-man decide di consegnare alla storia la stupenda title-track decorandola di un assolo struggente, caldo come il fuoco nel quale bruciano i dannati e che in venticinque secondi ci porge il cuore grondante sangue vivo di un artista tanto tormentato quanto sincero in ciò che ha fatto per la causa dell’estremo in musica.
Forse è proprio a causa dell’intensità sovrumana di quella singola istantanea, sigillata dal maestoso confluire in un ultimo refrain da pelle d’oca e pugnale sacrificale a mezz’aria, se la seconda parte della scaletta presenta qualche momento di stanca dove la band sembra volersi ritrarre nel sicuro alveo dei Sunlight, lambito al suo massimo nei rallentamenti bassi e massicci di “Sacrificial Rites”; eppure bastano una pennellata di chitarra ed un ringhio del vocalist a ribadire l’anima tetra da sempre albergante nel Death Metal nordico: quella proveniente da “Clandestine” e da ancora pochi altri piccoli gioielli non a caso raramente messi al pari dei soliti classici, e che dei Necrophobic incuranti di qualsivoglia paletto delimitante avrebbero portato avanti con strenua fedeltà a loro stessi.

Tutta lì, in fin dei conti, la ragione dell’in qualche modo scarsa considerazione che l’ensemble di Stoccolma pare avere presso i circoli intellettuali che tanto credito hanno in questo genere: l’essere andati per la loro strada evitando pause di riflessione né ripensamenti riguardo il proprio sound ed immaginario, senza indugiare nel facile scandalo nemmeno a fronte del difficile materiale umano rappresentato da Blackmoon e dal qui solo bassista Tobias Sidegård, né tantomeno pascersi nel passato se non giusto col ritorno all’ovile nel 2014 del ritrovato Strokirk: putacaso l’unico momento in cui i Necrophobic hanno per una volta attirato il chiacchiericcio di un pubblico appassionato più alle pagine di Metal Archives sugli avvicendamenti in line-up che non agli sforzi creativi in studio.
Condotto per ormai quasi trentacinque anni da un ferreo leader silenzioso come se ne vedono pochi nel giro, il monicker scandinavo fa infatti parte del ristretto novero di quelli che non hanno mai voluto illudere i propri sostenitori di essere qualcosa di diverso da un gruppo di Metal estremo, allo stesso tempo deliziosamente kitsch e cafoni nel loro look tutto pelle e chitarre puntute ma anche capaci di tocchi d’autentica stregoneria a sette note i quali continuano fino ai giorni nostri, lungo una discografia dai forse pochi successivi picchi e ciononostante da studiare a fondo per comprendere l’abusato e comunque nobilissimo concetto di ‘mestiere’ in ambito artistico.
Ricordiamoci allora di “The Nocturnal Silence”, quando enumeriamo i fondamenti della melodia consacrata all’Avversario, e teniamo a mente il nome dei Necrophobic quando ci chiediamo come mai la Svezia degli anni Novanta ci instilli ancora un brivido lungo la schiena dopo sìttanto tempo.

Michele “Ordog” Finelli

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